Convegno diocesano Caritas parrocchiali 2000

05-11-2000

DIOCESI DI VOLTERRA

Convegno diocesano Caritas parrocchiali 

“LA CARITAS PARROCCHIALE E LA MISSIONE”

(Mons. Mansueto Bianchi)

Volterra, 5 novembre 2000

 

La relazione che mi è stata richiesta stasera, vuole riprendere l’orizzonte tematico e gli obiettivi specifici della lettera pastorale “Il seminatore uscì a seminare…” specificandoli sulla presenza ed il servizio della Caritas nella comunità parrocchiale.

 

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C’è una prima difficoltà che occorre superare, e non è facile perché è molto radicata nella mente di alcuni, tanto da essere data come scontata; la difficoltà è questa: spesso si pensa che la carità appartenga alla vita di una parrocchia solo come appendice. Istintivamente pensiamo che una comunità cristiana si realizzi e si manifesti come tale nella catechesi, nella liturgia, nei sacramenti, mentre la carità appartiene più al momento applicativo o manifestativo, non a quello costitutivo della comunità stessa ed è quindi considerata un optional.

Sappiamo bene che tutta la Rivelazione del N.T., la Tradizione autentica della Chiesa fino ai più recenti orientamenti del Magistero riconoscono nella carità l’evento sorgivo della nostra salvezza ed insieme l’adeguato rivelarsi del cristiano al mondo. Siamo perciò nel cuore del vangelo, laddove esso annuncia l’amore fedele di Dio fatto misericordia per l’uomo peccatore ed il sorgere di una storia nuova, una storia chiamata ad essere un reticolato di relazioni e di rapporti fatti alveo e veicolo dell’amore che ci è stato usato: “…questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”(Gv. 15,12).

In questo senso la carità è veramente il cuore del vangelo, non solo momento applicativo o manifestativo di una vicenda, quella di Gesù, accaduta altrove, ma questo stesso evento che accade dentro la vita delle persone, nella geografia di un territorio.

 

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S’intende allora come una comunità cristiana chiamata ad essere cellula missionaria dentro il territorio, presenza evangelizzatrice dentro la più ampia convivenza sociale, non possa guardare alla carità semplicemente come ad un optional od a qualcosa di marginale rispetto alle componenti costitutive della propria vita: qualcosa da fare dopo la catechesi e la liturgia se c’è ancora tempo, risorse e persone disponibili.

L’annuncio del vangelo è certamente un evento della parola, ma della parola intesa in senso biblico e non come la intendiamo noi occidentali. Evangelizzare non è semplicemente dire, proclamare il messaggio del vangelo, è il vangelo che accade: è una parola detta, annunciata, spiegata che diventa fatti, diventa vita, persone, diventa storia.

Allora una parrocchia che evangelizza è una parrocchia che non solo fa risuonare il vangelo, ma fa accadere il vangelo in mezzo alla gente e dentro la vita della città o del paese.

Essere cellula missionaria, essere presenza evangelizzatrice vuol dire perciò, per una parrocchia, poter rispondere a quei “lontani” che con le parole e con i  silenzi domandano “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”, con le parole di Gesù: “I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono sanati, i sordi odono, i morti risorgono ed ai poveri è annunciato l’evangelo”(Lc. 7,21-23).

Così evangelizzare è questo intrecciarsi di parola e di opere, è vita nel senso più completo: la vita di Gesù che ricevendo visibilità ed attualità dalla vita del credente e della comunità cristiana, si propone al cuore di ogni persona.

 

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L’amore, la carità cristiana muove il passo dai bisogni elementari della vita per giungere fino alle attese più profonde e drammatiche.

C’è come una sacramentalità del povero davanti agli occhi del credente per cui l’intenzione ed il gesto di amore compiuto si dirigono ultimamente alla persona di Gesù. E’ Lui stesso che lo afferma: “Ogni volta che avete fatto anche una sola di queste cose ai miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me”(Mt. 25,40).

Il gesto della carità appartiene perciò alla dimensione più profonda e teologale dell’amore: il gesto che compiamo verso il fratello “ultimo” sgorga dal cuore stesso di Dio, attraversa la nostra vita, si riveste delle nostre risorse e della nostra dedizione, raggiunge il fratello amandolo e servendolo nelle sue necessità ed in lui ama e serve il Signore stesso, presente nella persona del povero: “…l’avete fatto a me!”.

S’intende allora come il gesto della carità che un credente od una comunità cristiana compie, non come episodio ma come linea continuata di vita, è di natura sua un gesto missionario e di evangelizzazione. Esso infatti rende presente, nella dedizione e nel servizio, qualcosa della dedizione e della tenerezza di Dio verso la sua creatura. La carità dunque non si aggiunge dall’esterno all’impegno di evangelizzazione, quasi a rappresentarne la preparazione o la conseguenza, ma è in se stessa evento di evangelizzazione. E lo è in due sensi: prima di tutto perché il gesto della carità evangelizza chi lo compie, cioè rende più evangeliche le nostre parrocchie e noi cristiani, poi perché rende prossimo il volto paterno di Dio nella vicenda, spesso devastata, degli “ultimi”.

 

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Devo però aggiungere che nella comprensione cristiana della carità la parola accompagna sempre il gesto per dargli comprensibilità e per svelare l’intenzione e lo scopo che lo determina.

Allora il gesto della carità che si compie nella comunità cristiana deve sempre rendersi comprensibile nella specificità e profondità del suo contenuto che è Gesù Cristo ed il suo vangelo.

Un cristiano, proprio perché traduce il cuore di Dio verso la sua creatura e proprio perché serve tale creatura nella sua interezza, secondo il progetto di Dio su di lei, non può limitarsi a dare il pane, bisogna che insieme offra il pane della fede, non può limitarsi a dare una casa, insieme deve offrire quella casa che è la Chiesa, non può curare solo i disagi o le malattie del corpo senza insieme offrire risposta alle inquietudini dello spirito. E questo non è né confessionalismo né strumentalizzazione della carità per fare proselitismo religioso, infatti una comunità cristiana compie il gesto della carità verso tutti senza pre-condizioni e senza secondi fini, neppure di ordine religioso, ma porta dinanzi alla libertà di ciascuno non solo qualcosa (il pane, la casa, il lavoro, ecc.) ma il dono totale di Dio per quella vita e per quella persona che è Gesù Cristo ed il suo vangelo.

Se ci limitassimo per così dire, a compiere il gesto di una carità solo materiale, sottraendoci al compito di donare Gesù Cristo alle persone, non solo amputeremmo la dimensione integrale della carità, ma priveremmo la libertà del fratello “ultimo” di un incontro e di un confronto a cui ha diritto: quello con la persona di Gesù. Così da un lato colmeremmo una povertà materiale, dall’altro ne apriremmo una spirituale assai più radicale e terribile. In ultimo quel fratello sarebbe ancora più povero. Insisto su questo perché ho la sensazione che tante volte le nostre parrocchie facciano carità come si fa filantropia o solidarietà, prescindendo metodicamente dalla dimensione evangelizzatrice che ad essa inerisce: non possiamo dimenticare che i gesti di Gesù verso i poveri e gli ammalati non erano solo per sollevare un disagio fisico, ma perché il Regno di Dio facesse irruzione in quella persona, tanto da poter chiedere la fede proprio a partire da quelle opere che compiva: “Se non volete credere a me, credete almeno alle opere che compio”(Gv. 5,36; 14,12).

 

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Ancora un’annotazione vorrei porre sull’attività di carità che si compie nelle nostre parrocchie: la carità non sopporta di essere amministrata. Voglio dire: non facciamoci prendere la mano dall’aspetto organizzativo, funzionale, manageriale. La carità cristiana, prima di essere struttura, è e deve restare soprattutto cuore. Se è importante che una iniziativa di carità funzioni, io come vescovo devo dirvi che non funziona ancora o non funziona abbastanza se non trasmette il cuore di chi la fa, cioè il cuore di una comunità cristiana ed, in essa, il cuore di Dio. Per questo dico: attenzione, la carità cristiana non si amministra, la si fa e nel momento in cui tu fai la carità partendo dal cuore è la carità che fa te, ti fa un “cuore nuovo”.

 

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La Caritas parrocchiale

 

Noterete che ho sempre parlato della carità compiuta dalla comunità cristiana o dal credente, ma non ho certo dimenticato che quello di stasera è l’incontro con le Caritas parrocchiali. L’insistenza era perché non si dimenticasse mai che il soggetto primo della carità è la persona e la comunità intera. In questo senso il gruppo Caritas da un lato raccoglie la sollecitudine caritativa dell’intera parrocchia, la coordina, la organizza, la specifica in settori ed ambiti, la inquadra nel contesto diocesano, d’altro lato è compito della Caritas richiamare continuamente l’intera comunità a questa attenzione e dedizione, soprattutto attendere alla formazione ed alla sensibilità delle nostre comunità su questo tema. In ogni caso mai si potrà pensare alla Caritas come ad un organismo che si accolla in esclusiva questa attenzione e questo servizio, quasi liberando la parrocchia da una fastidiosa preoccupazione.

Infine vorrei richiamare la vostra attenzione su quegli impegni che la lettera pastorale significa alla nostra Diocesi per questo anno. Qui non ho molto da dire, mi aspetto invece il vostro apporto ed il vostro contributo anche attraverso le riflessioni dei gruppi di studio.

In particolare la presenza della Caritas nei gruppi familiari di riflessione evangelica può e deve mantenere costante l’aggancio tra la Parola e la vita. Sia nel senso di non vanificare l’ascolto della Parola in intellettualismi o spiritualismi disincarnati, ma cercando di rapportarla continuamente all’esperienza di vita della gente, sia nel senso di aprire all’ascolto uno sbocco nelle opere e nei comportamenti della vita.

In particolare sarebbe un dono eccezionale del Signore se, almeno in qualche parrocchia, dall’ascolto della Parola di Dio sorgesse l’iniziativa di un centro di ascolto dei poveri: avremmo, nel frammento, la completezza dell’evento di evangelizzazione.

L’altra attenzione che ho significato alla Diocesi per il presente anno pastorale è lo studio della situazione giovanile, in modo da giungere nella prossima estate ad esprimere, come Chiesa volterrana, un progetto formativo per i giovani. E qui l’apporto Caritas può essere veramente grande, sia nella focalizzazione degli ambiti del disagio presenti sul nostro territorio, sia nell’offrire una sensibilità ed attenzione alla mondialità ed ai grandi drammi del nostro tempo, impedendo la risorgente tentazione dell’individualismo o del piccolo orizzonte nostrano. E su questi terreni le Caritas possono certo esprimere una grande potenzialità missionaria essendo luogo privilegiato di incontro, di dialogo, di collaborazione, con strutture civili, culturali, amministrative e con tante persone di buona volontà che cercano di essere risposta alle attese dei poveri.

L’ultimo richiamo che vi faccio riguarda quel “primato della formazione” sulla quale lungamente la lettera pastorale insiste. Abbiamo il dono di vivere in un tempo in cui è necessario essere attrezzati per “rendere ragione della speranza che è in noi”. L’improvvisazione, l’estemporaneità, la pratica, il solo buon senso hanno oggi le gambe corte e non portano lontano. L’impegno per la formazione deve essere veramente al primo posto, per tutta la Diocesi, in tutti i settori. Da qui per voi il richiamo a non stancarvi di formare voi stessi e di formare, anche se, per scarsità di risorse, questo dovesse momentaneamente ridurre la vostra attività di servizio specifico a vantaggio di un maggiore spessore della vostra identità, delle vostre motivazioni, delle vostre competenze tecniche.

E soprattutto non stancatevi di formare le nostre comunità parrocchiali, anche se tante volte inerti e demotivate, non stancatevi di essere voi, per primi, quel “seminatore che uscì a seminare…”.

 

+ Mansueto Bianchi, vescovo