CONVEGNO DIOCESANO “LAICI IN MISSIONE” 2002

23-06-2002

Diocesi di Volterra

CONVEGNO DIOCESANO “LAICI IN MISSIONE”

  

 OMELIA DEL VESCOVO MONS. MANSUETO BIANCHI NELLA CONCELEBRAZIONE CONCLUSIVA
(23 GIUGNO 2002)

 

Il brano che abbiamo ascoltato poco fa nel Vangelo (Mt. 10,26-33), è un brano che si adatta stupendamente a quello che abbiamo vissuto in questi giorni perché sono le consegne che Gesù dà ai suoi discepoli nel momento in cui li manda in missione: laici in missione. Incontriamo, intercettiamo, sul tema della missione, il Vangelo di oggi.

In questo brano che abbiamo ascoltato c’è una parola che ricorre quattro volte; è la parola che ricorre più frequentemente di tutte; questa parola è: paura.

Io, stasera, vorrei fare questa mia omelia, che conclude il Convegno, sul tema della paura.  Secondo il Vangelo di stasera, di tre cose non bisogna avere paura e di una cosa, sì, bisogna avere paura.

 

 

à La prima cosa di cui non bisogna avere paura è di parlare. Abbiamo inteso Gesù: “Non abbiate paura perché non c’è nulla di nascosto che non debba essere svelato né di segreto che non debba essere manifestato. E quello che vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce e quello che ascoltate all’orecchio, predicatelo sui tetti”.

Non bisogna aver paura di parlare. La nostra diocesi, scegliendo la strada dell’evangelizzazione e della missione, ha fatto centralmente la scelta di parlare. E con questo Convegno, che inizia la trafila dei convegni biennali dei prossimi dieci anni, comincia a chiedere ai laici di parlare.

Per parlare, per non aver paura di parlare bisogna, prima di tutto, ascoltare Dio perché, se non si ascolta Dio, non si parla …si chiacchiera!

Ed è il richiamo che è venuto forte anche dalle indicazioni di questo Convegno: quando si è detto e  si è  insistito  sull’importanza e l’opportunità dei Centri d’Ascolto della Parola: in principio è e rimane la Parola ascoltata, la Parola a noi donata.

Per non aver paura di parlare, bisogna ascoltare gli uomini perché la differenza fra l’indottrinamento, il colonialismo religioso e l’evangelizzazione è tutta qui. Chi vuole indottrinare e colonizzare, anche religiosamente, va, sapendo che ha soltanto da dire; chi vuole evangelizzare, cioè recare un lieto annunzio che apre le ali al volo della vita, che esaudisce l’attesa e il desiderio profondo della persona, sa che, prima di tutto, deve ascoltare.  Ed è impressionante questa verità del Dio cristiano che, prima, per trent’anni ascolta e, poi, per tre anni, parla.

E mi pare significativo che in questo Convegno sia emerso, ripetutamente, il richiamo all’ascoltare le persone, i bisogni, le situazioni, ad ascoltare la cultura, a cercare di studiare, di cogliere, di intendere quanto si va evolvendo, quanto si va formulando dentro la vicenda culturale, dentro la vicenda politica, dentro la vicenda sociale, ma, ultimamente, dentro la vicenda personale  e familiare dei soggetti, delle persone.

Per non aver paura di parlare,  occorre parlare fra di noi nella Chiesa; occorre parlare fra di noi nella comunità cristiana. Quante volte, una stessa comunità cristiana è attraversata e intersecata da muri di silenzio: ciascuno va avanti per conto proprio, non entra in  contatto con l’altra presenza, con l’altra organizzazione, con l’altro progetto, con l’altro impegno, con l’altra fatica, se non per costrizione organizzativa.

Quante volte il silenzio è compagno delle nostre comunità cristiane, nei rapporti fra comunità cristiane, fra parrocchia e parrocchia, tra associazione e associazione.

Quante volte i nostri problemi sono l’evidenza o l’esplosione del silenzio che c’è fra noi.

Dicevo, poco fa, con quelle brevi sottolineature che concludevano  gli interventi di questo pomeriggio, dicevo che l’obiettivo che abbiamo dinanzi è quello di fare una Chiesa sinodale, una Chiesa che ha lo stile della sinodalità. E sinodalità vuol dire camminare insieme sulla stessa strada, vuol dire diverse strade, diversi percorsi che si incontrano, si intrecciano e continuano come una strada unica. Ma per camminare, non su una strada unica, per camminare insieme sulla stessa strada, bisogna camminare come hanno camminato i discepoli di Emmaus ragionando fra loro delle cose accadute in quei giorni; bisogna camminare come hanno camminato i discepoli di Emmaus che nel reciproco dialogo si sono aperti a quella ulteriore Parola, a quella ulteriore Presenza che li raggiungeva e che diventava luce, diventava significato dentro di loro, per quello che avevano vissuto, per quello che avevano sofferto in quei giorni.

Non basta camminare sulla stessa strada; bisogna camminare insieme perché si possono anche fare percorsi paralleli dove non ci si dice, dove non ci si comunica.

Mi pare che lo sforzo di mettere in piedi un Convegno, lo sforzo di partecipare ad un Convegno, di prepararlo, anche con quei mille limiti che ciascuno di voi potrebbe immediatamente rilevare, risponda a questa istanza.

Parlare dentro la Chiesa, parlare  fra comunità cristiane: mi pare che una delle richieste che emerge da questo Convegno, cioè il costituire degli organismi di partecipazione ecclesiale, di comunione ecclesiale dentro le parrocchie – il Consiglio Pastorale parrocchiale, il Consiglio Pastorale Vicariale, il Consiglio degli Affari Economici – risponda a questa esigenza di una comunità cristiana dentro la quale ci si parla di comunità cristiane  fra le quali ci si parla.

Per non aver paura di parlare  occorre rompere il cerchio di parlare soltanto  fra noi: il fascino del rimanere fra chi ci condivide, cioè quello che Gesù chiama il parlarci nell’orecchio.

Bisogna chiederci quali sono, dove sono, nella nostra diocesi, nelle nostre parrocchie i tetti su cui bisogna salire per parlare. “Quello che vi è  stato detto nell’orecchio, predicatelo sui tetti”.

E ne abbiamo individuati di questi tetti, in questi giorni, eccome se ne abbiamo individuati! Abbiamo parlato del volontariato, abbiamo parlato della scuola, abbiamo parlato dell’ambito sociopolitico, dell’ambito culturale, abbiamo accennato al problema drammatico e formidabile dei giovani…

C’è un altro tetto di cui non abbiamo parlato e che proprio ci è sfuggito: è il tetto delle frontiere della vita. Queste sono un formidabile slargo missionario dentro la vicenda delle persone. Penso alle frontiere della vita nella sofferenza, alle frontiere della vita nella morte, penso alle frontiere della vita nell’amore, penso alle frontiere della vita nella gioia, penso ancora a quella frontiera della vita che sono i giovani!

Questi slarghi missionari sono “i tetti”, sono alcuni dei “tetti” sui quali dobbiamo andare  a gridare quello che ci è stato sussurrato nell’orecchio.

 

 

à La seconda cosa di cui non bisogna avere paura: non bisogna avere paura di soffrire. “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima”. Non abbiate paura. Non dobbiamo avere paura!

Non dobbiamo avere paura di soffrire: perché? Ve lo dico con un po’ di trepidazione, ma mi pare che sia la verità: soffrire è normale, soffrire è normale perché appartiene allo scegliere,  all’amare e al servire. A questi tre verbi appartiene essenzialmente, inevitabilmente il soffrire. Non bisogna avere paura di soffrire. La sofferenza, per esempio, della nostra molta fatica e penso ai molti servizi pastorali che si esprimono in questa chiesa; penso ai servizi di fede che cerchiamo di rendere in risposta al Signore, cerchiamo di renderci  gli uni gli altri dentro la diocesi, dentro le parrocchie.

È la sofferenza della molta fatica, della fatica grigia che è la più tremenda, della sofferenza, cioè, prolungata.

Non bisogna aver paura della sofferenza: la sofferenza dei pochi risultati, dopo tanta fatica; la sofferenza della precarietà dei risultati dopo tanto investimento di fatica e di speranza.

Non bisogna aver paura della sofferenza: la sofferenza del costruire tenacemente, umilmente, cocciutamente un rapporto di comunione con fratelli e sorelle tanto diversi da te.

Non bisogna aver paura della sofferenza che viene dalla comunità, quando la comunità è  mediocre, quando la comunità alla quale apparteniamo tende a scolorarsi. Non bisogna aver paura della sofferenza dei laici mediocri, dei sacerdoti mediocri, del vescovo mediocre. La mediocrità degli altri, che diventa un patire, non deve diventare un patire che ci impaurisce.

Non bisogna avere paura della sofferenza del rifiuto, della sofferenza della marginalità  di un cristiano, dei cristiani, della proposta cristiana rispetto agli interessi della gente. Non dobbiamo avere paura quando abbiamo storicamente, sociologicamente la percezione che ci troviamo nell’ansa del fiume, laddove non sembra scorrere più il flusso degli interessi e della vita.

Non dobbiamo aver paura di quella sofferenza che è il ricominciare, ogni volta, da capo come se nulla fosse successo.

 

 

à La terza: non bisogna aver paura di essere lasciati soli. “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di loro cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi: perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete di più di molti passeri”.

Non bisogna aver paura di essere lasciati soli, di rimanere soli, di essere lasciati soli da Dio, perché ci sono dei momenti in cui Dio sembra assente, in cui Dio sembra lontano. Ci sono dei momenti, delle stagioni nella storia in cui il tempo, la stagione storica che tu stai vivendo ti appare come un tempo ateo, come una stagione atea. Ci sono delle stagioni della vita personale ci sono delle vicende della vita personale che ti possono sembrare atee: le stagioni e i tempi in cui Dio è negato.

Non bisogna aver paura di essere lasciati soli dalla comunità. Quando il tessuto comunitario è sfilacciato, quando il tessuto comunitario è logoro -e quante volte, quante volte abbiamo a che fare con questa realtà-, quando si è pochi o, addirittura, si rimane soli a tirare il carretto, quando non c’è  neppure, per motivi diversi e validissimi, una sufficiente presenza di aiuto da parte dei sacerdoti.

Non bisogna avere paura di essere lasciati soli da parte dell’ambiente, dalla società, dalla mentalità comune che non condivide, non apprezza e, a volte, non nota neppure la presenza, il servizio, la proposta cristiana. Non bisogna aver paura della irrilevanza del cristianesimo, della sua insignificanza secondo i criteri del mondo.

Dobbiamo dire ancora una cosa in più sulla paura di rimanere soli: è inevitabile, è necessario rimanere soli.

Fare l’esperienza della solitudine, come Gesù. Ricordate l’esperienza dei quaranta giorni nel deserto? Certe solitudini di Gesù, quando non è capito, quando è rifiutato addirittura dai dodici? Ricordate la solitudine di Gesù nell’orto del Getsemani, la solitudine di Gesù sulla Croce?

E questa, che è una delle logiche della vita  di Gesù, transita – perché è una logica transitiva – passa anche nella vita del discepolo. Gesù ha detto con chiarezza: “Se il chicco di frumento non cade in terra e non muore, rimane solo, ma se muore produce molto frutto”.

Che cosa vuol dire? Vuol dire che bisogna rimanere soli, per non rimanere soli; bisogna entrare nell’esperienza della solitudine, del cadere in terra e del morire, per non rimanere soli e fruttificare. _

C’è una solitudine che è necessaria, c’è una solitudine che è inevitabile, c’è una solitudine che è feconda anche nella vita pastorale, anche nel servizio pastorale di comunità.

Certamente – bisogna dirlo – occorre essere robusti dentro; sì, occorre essere robusti dentro.

Ricordiamo i capitoli iniziali del libro di Giosuè: questa stagione di enormi imprevisti in cui il popolo, al termine dei quarant’anni nel deserto, sta per entrare nella terra, una terra che divora i suoi stessi abitanti, secondo gli esploratori che avevano mandato avanti. Il messaggio che ritorna in maniera quasi ossessiva nei confronti del popolo e nei confronti di Giosuè è “confortamini et esto robustus”, cioè “sii forte, sii coraggioso, sii robusto, abbi consistenza”.

Bisogna – ripeto –  essere consistenti, essere robusti dentro. Se volessi tradurlo con  un linguaggio neotestamentario direi: “è necessario essere ancorati, fondati sulla roccia che è Cristo”.

 

 

à Ed infine, c’è una cosa di cui dobbiamo aver paura: “abbiate paura di colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna”. Dobbiamo aver paura di Satana.

Dobbiamo aver paura di Satana soprattutto quando cammina nella nostra vita, in mezzo alle  nostre chiese e nella nostra storia con il frak, in abiti compiti, vestito di rispettabilità, vestito di buon senso, vestito di intelligenza.

Che cosa è la Geenna di cui parla Gesù? “Di costui abbiate paura che può gettare il corpo e l’anima nella Geenna”.

La Geenna, storicamente, è la valle di Ge-Himmon a sud-ovest di Gerusalemme ed era la valle dove si gettavano le cose usate, finite, gli scarti; era una discarica. La Geenna è la valle delle cose morte.

Ecco di che cosa dobbiamo avere paura: dobbiamo avere paura che la nostra Chiesa di Volterra, che le nostre associazioni, che le nostre parrocchie finiscano nella Geenna, nella valle delle cose morte.

Dobbiamo, cioè, aver paura dell’irrilevanza, del mutismo, dell’insignificanza che nascono dal nostro poco amore a Gesù Cristo; dobbiamo aver paura di finire nella valle delle cose morte per mancanza di santità personale, per mancanza di santità laicale, per mancanza di santità feriale, quella che fermenta  la vita del mondo come il lievito fermenta la pasta del pane.

Dobbiamo avere paura della valle delle cose morte, di una Chiesa che parla solo nel suo interno e parla solo ai cristiani perché questa Chiesa è incamminata verso la valle delle cose morte.

Dobbiamo aver paura di una Chiesa che aspetta che gli altri vengano a bussare, senza uscire sulla strada; dobbiamo aver paura di una Chiesa che gestisce l’esistente facendo finta di non accorgersi che è sempre più  a calare l’esistente.

Dobbiamo aver paura di una Chiesa che si preoccupa soltanto di dire Messe e di sacramentalizzare persone e generazioni sempre più indifferenti, sempre più atee nella vita.

Non dobbiamo avere paura di una Chiesa povera di risorse, però di una Chiesa che tenta di essere presente, che cerca di essere significativa, secondo il Vangelo.

Dobbiamo aver paura di una Chiesa ebete, di una Chiesa abitudinaria, di una Chiesa ripetitiva; dobbiamo aver paura di una Chiesa che tira a campare e che continua a fare, oggi e domani, quello che ha detto e fatto fino ad ieri, perché lo ha sempre fatto, lo ha sempre detto così.

Di questa Chiesa dobbiamo avere paura perché è un triste carrozzone,  che si incammina verso la valle delle cose morte.

 

 

à Concludiamo il nostro Convegno. Credo che questo Convegno sia un piccolo segno verde.

Mi ricordo di come si apre quel libro tremendo, apparentemente catastrofico, che è il libro di Geremia: “Geremia, Geremia che cosa vedi?”.  “Vedo un piccolo ramo di un albero”.

Ecco: credo che questo nostro Convegno, che chiudiamo stasera, sia un piccolo segno verde, un piccolo segno verde di vita, di quella vita, di quella disponibilità, di quell’umile ricchezza che siete voi, che siamo noi e tanti altri, oltre noi, dentro questa Chiesa di Volterra.

Un piccolo segno verde che dice l’investimento, l’incamminarci di tutti noi,  certamente, con fatica, con contraddizioni, ma anche con una grande speranza verso il futuro.