IL VANGELO DENTRO LA VITA 2002

04-12-2002

Da «Dialoghi» n.4 del dicembre 2002

Eventi & idee

IL VANGELO DENTRO LA VITA

 

+Mansueto Bianchi, vescovo di  Volterra

 

Non è stato certo un gesto formale quello compiuto dal consiglio permanente della Cei il 12 marzo di quest’anno, nell’inviare una lettera all’Azione Cattolica  in prossimità dell’XI Assemblea nazionale. È il prolungarsi di un colloquio tra  i pastori della Chiesa in Italia e la più antica e significativa delle aggregazioni laicali cattoliche, che perciò ben conosce il tracciato di questa Chiesa nella storia, le sue risorse e le sue fatiche, per esserne stata, essa stessa, espressione «alta» e forza trainante nel cammino. A questo titolo l’Azione Cattolica ha sintonia profonda, quasi unisono, con la Chiesa italiana e può, prima e meglio di ogni altro, custodire, elaborare, volgere ad attuazione quanto i vescovi le confidano e le affidano.

Con questa riflessione non presumo di commentare la lettera, ma, più modestamente, di porre qualche riflessione e qualche valutazione su alcuni passaggi o contenuti: quasi pensieri in «libera uscita»

 

L’ecclesialità

Il tratto originalissimo dell’Azione Cattolica, che la individua e la qualifica tra le altre aggregazioni laicali, e motiva la peculiare attenzione che dall’episcopato riceve, sta nella scelta forte che essa fa della Chiesa e particolarmente della Chiesa locale. Non un ambito di vita, non una fascia di esperienza o di età, men che meno la comunità cristiana come fornitrice di persone o di risorse da sottrarre per il raggiungimento dei propri parziali obiettivi, ma la Chiesa scelta come propria casa, come termine della propria dedizione, come motivo della propria fatica.

 

Scegliere la Chiesa non in una sua parte, non in un suo obiettivo, ma sceglierla nella sua interezza, nella concretezza e nella specificità di una Diocesi, vuoi dire volgersi a una fatica grigia, che non consente fughe in avanti o percorsi di privilegio, una fatica elementare che non cerca coltivazioni selettive o di pregio, ma si piega a dissodare il campo, una fatica diuturna che non avvampa in una stagione felice per poi intiepidirsi e spegnersi, ma si prolunga sotto il segno della fedeltà, attraverso le stagioni diverse della vita personale e generazionale. Una fatica consolata, occorre dirlo, perché a pieno titolo apostolica e laicale, perciò segnata nelle motivazioni e nei percorsi, dalla fedeltà al Vangelo e dalla fedeltà alla vita.

 

Scegliere la Chiesa e la Chiesa particolare vuol dire la capacità di riconoscerne ed amarne il Mistero anche nel suo velamento: quella che l’Azione Cattolica incontra ed ama, nelle Diocesi e nelle parrocchie, è una Chiesa che non ha il vestito luminoso della sposa, ma quello grigio della serva. Occorre davvero uno sguardo luminoso e perspicace, lo sguardo dei credenti e degli amanti, per intendere che la pastorale di una parrocchia, nella sua prosaica ferialità, è la tessitura dell’abito nuziale.

 

Ma questa scelta della Chiesa locale vuol dire anche, per l’Azione Cattolica, quella .di promuoversi servendo, quella di affermare se stessa affermando altro: la Diocesi, la parrocchia, l’articolazione della vita cristiana. È come un perdersi, un effondersi, a sostenere il cammino dell’intera comunità, per ritrovare il proprio specifico e la forza della propria identità precisamente nel gesto e nella dedizione con cui si costruisce e si serve ciò, che è più grande, più valido, più definitivo di te: la Chiesa.

 

Questo proporsi servendo non dissolve l’Associazione nella Chiesa locale, ma la individua con un tratto originalissimo, facendone un punto di forza, di risorsa, di speranza per tutta la Chiesa. È su questo orizzonte che i Vescovi nella lettera scrivono: «L’Azione Cattolica continua ad essere una preziosa esperienza di cui la Chiesa, ed ogni Chiesa particolare, non possono fare a meno. Il legame diretto ed organico dell’Azione Cattolica con la Diocesi e con il suo Vescovo…,  l’assunzione della missione della Chiesa, il sentirsi «dedicati» alla propria Chiesa ed alla globalità della sua missione; il far propri il cammino, le scelte pastorali, la spiritualità della Chiesa diocesana, tutto questo fa dell’Azione Cattolica non un’aggregazione laicale tra le altre,  ma un dono di Dio ed una risorsa per l’incremento della comunione ecclesiale, sui quali ciascun Vescovo, il suo presbiterio e l’intera  comunità ecclesiale sanno di poter fare affidamento» (n. 4).

 

La Laicità

 

Continua ad essere un capitolo difficile quello dei laici nella Chiesa: non perché non se ne parli, ma perché troppo spesso e troppo frettolosamente ricondotto a collaborazioni o iniziative pastorali.

 

Se uno dice “Chiesa” se uno dice «Missione» e subito tutto diventa una iniziativa ulteriore,  un altro ufficio pastorale o comunque un’azione pastorale, allora anche il laico, la sua identità ecclesiale e la sua missione, diventa quella di un collaboratore, generico o specifico, a qualche nuova iniziativa. E tutto questo non è falso, è poco.

 

La lettera dei Vescovi chiede all’Azione Cattolica di portare la visibilità e vivibilità del Vangelo dentro la vita, senza aggettivi, con quella ordinarietà che appartiene all’esperienza di tutti. Si tratta allora di evangelizzare il quotidiano, aiutando le persone a riappropriarsi evangelicamente della vita, delle  parole e dei silenzi, delle relazioni e delle assenze, dei successi e dei fallimenti, di ciò che prendiamo e di ciò che perdiamo, con un cuore meno ateo, meno domato dal pensiero e dall’istinto comune, ritrovando e riproponendo la sintonia con gli occhi ed il cuore di Dio nel guardare e vivere la vita. Questa osmosi tra fede e vita di ogni giorno, di ogni uomo e donna,  l’Azione Cattolica deve cercare e promuovere perché senza di essa la fede non è della persona e la vita non è cristiana. È qui il luogo “primo” del laico, della sua identità, della sua missione. Qui l’Azione Cattolica ha un percorso mai terminato per i propri aderenti, di formazione e sostegno dentro le diverse comunità cristiane, di testimonianza ed evangelizzazione nel cuore del mondo.

Ma assieme a questa laicità, intesa come un ricostruire la trama cristiana del quotidiano, l’Azione Cattolica ha certamente il compito missionario di collocarsi sulle grandi frontiere del pensiero e dei percorsi di civiltà oggi. Scrivono i Vescovi che le spetta «esprimere con forza la voce del laicato cattolico, attorno ai grandi temi che agitano la nostra società e che coinvolgono l’autentica visione della persona e della comunità nel mondo (quali la vita, la famiglia, la libertà educativa, il diritto al lavoro, la crescita della società civile, la difesa dei più poveri, ecc.). Vorremmo che l’Azione Cattolica si rendesse sempre più disponibile al dialogo sui grandi temi della vita ed accettasse le sfide lanciate dalla cultura contemporanea, non solo per offrire a quanti sono in ricerca la possibilità di una riflessione e di una verifica in comune con i cristiani, ma anche per indirizzare i soci verso una coraggiosa testimonianza dei valori evangelici nella vita sociale, per una loro efficace penetrazione nel vissuto della nostra società» (n. 2).

In questo senso l’incontro critico con le grandi sfide di pensiero e di progetto del nostro tempo, prima di essere rischiose o difficili, sono necessarie, ineludibili. L’Associazione  porta all’incontro l’elaborazione e la istanza evangelica sulla persona, sul tempo, sulla città: in questo modo forma i cristiani e testimonia coraggiosamente una lettura della realtà coerente con i valori evangelici, ma, ancora, essa diventa qui il sicomoro e la piazza. Il sicomoro su cui Zaccheo salì per vedere passare il Signore: molti oggi cercano senza incontrarLo, si aggirano tra la folla e non riescono a vederLo. Occorrono dei sicomori su cui poter salire quando Lui passa, e l’Azione Cattolica può essere un sicomoro di questo tempo, per questi tracciati di vita e ricerca, perché chi vuole possa salire e riuscire a vederlo. Ma l’Associazione è anche la piazza, l’agorà, cioè lo spazio aperto, disponibile, umano in cui ci si possa incontrare portando progetti e alfabeti diversi, per poter ascoltare e parlare. È l’agorà del dialogo fede-cultura, del confronto tra diverse opzioni culturali ed operative dinanzi ai problemi della vita e della società, del raccontarsi percorsi anche radicalmente diversi sul proprio orientamento spirituale. Occorre che l’Associazione, come spazio per l’incontro e il dialogo, sappia privilegiare l’umiltà, la stima dell’interlocutore, il disinteresse verso ogni possibile vantaggio, l’amore al parlare sottovoce come chi si fida dell’intelligenza altrui, la tenacia a non lasciarsi smontare da fallimenti, freddezze o ritardi, la convinzione che la verità è più forte e suadente di colui che l’annuncia e di colui che l’ascolta. In un tempo di presunte verità gridate e non ascoltate, esibite, contrapposte, questa piazza discreta, non chiassosa, dove si può parlare da testa a testa, da cuore a cuore, mi pare molto laica e molto missionaria.

 

La formazione

Mi soffermo brevemente su questo punto perché credo che sia uno dei più percorsi dalla riflessione e dall’esperienza dell’Associazione. Già negli Orientamenti pastorali per il decennio, i vescovi italiani hanno chiesto all’Azione Cattolica una «esemplarità formativa» (n. 61), ma anche le nostre diocesi, le parrocchie, si attendono dall’Associazione una proposta di formazione rinnovata ed efficace. È la grande sfida e l’acuta inquietudine delle nostre chiese: misurare il grande sforzo profuso per la formazione, constatarne le modeste risultanze, chiedersi con personale sofferenza se oggi siamo ancora capaci di educare, se sia ancora possibile educare cristianamente oggi. Credo che quanto di sofferenza, di sfida, di speranza risuona in queste domande, trova una eco forte e condivisa dentro l’Associazione. Chiediamo che essa continui a darci un progetto educativo organico, progressivo, disteso su tutto l’arco delle stagioni della vita. Percorsi formativi che non scorrano paralleli alla vita, sul tracciato preferenziale dei libri e delle riunioni, ma che sappiano impattarsi con le vicende quotidiane della gente: una formazione «sul campo», dentro il processo vivo delle nostre Chiese. Una formazione che riesce finalmente a farsi amare, svincolandosi dai cappucci grigi della obbligatorietà, della sopportazione, della riduzione dell’uomo alla sola testa. Percorsi formativi rinnovati perché aperti a coinvolgere verso il cammino di fede ragazzi, giovani ed adulti anche al di fuori delle esperienze associative; percorsi capaci di prendere in mano le «patate bollenti» che sono le esperienze, le domande, le fascinazioni presenti nella vita di tanta gente oggi. Ma soprattutto percorsi formativi che facciano innamorare di Dio, di Gesù Cristo, del Vangelo ed avviino alla risposta della santità: una santità feriale, una santità laicale, una santità possibile per quella gente che siamo noi.

 

La missione

Lo sentiamo tutti forte oggi il bisogno della missione: l’erodersi numerico dei credenti, l’affievolirsi del senso della fede, la minore rilevanza della Chiesa nel tessuto sociale, il trentennale insistere dei vescovi italiani sul primato dell’evangelizzazione hanno acutizzato a tutti i livelli nelle nostre chiese, il bisogno ed il riferimento alla missione. Solo che la risposta appare, nei fatti, impropria ed inadeguata. Ma soprattutto impropria. Si risponde infatti intensificando il numero degli incontri e delle catechesi in preparazione ai Sacramenti, assumendo atteggiamenti colpevolizzanti o punitivi verso tanti «non praticanti» che ci chiedono (più o meno garbatamente) il dono dei Sacramenti,  contrapponendo quasi in linea di principio l’evangelizzazione ai Sacramenti. In realtà la scelta della missione non chiede una qualche aggiunta pastorale alle nostre proposte catechetiche e formative, ma chiede il cambiamento del nostro modo di pensare ed organizzare la vita della comunità cristiana. Non si tratta di fare qualcosa in più o qualcosa di diverso, si tratta anzitutto di ripensarci e riformularci in chiave di missione. Le nostre chiese, le nostre parrocchie, storicamente sono espressione di una Chiesa che attende, che accoglie, che forma, che risponde alle domande di chi Le si rivolge. Diventare presenza missionaria vuol dire semplicemente ripensarci in funzione del suscitare la domanda e non solo del fornire la risposta: perciò ripensare in chiave di evangelizzazione quello che siamo e che facciamo nella celebrazione liturgica, nella formazione catechetica, nel gesto della carità.

 

Questa scelta missionaria deve inoltre specificarsi sui destinatari secondo quelle tre situazioni di vita che affiorano anche negli Orientamenti Pastorali per il prossimo decennio: i non credenti e gli appartenenti ad altre Religioni cui siamo debitori dell’annuncio di Cristo e del Vangelo (una situazione che solo pochi decenni fa era per noi remota ed oggi è diventata quotidiana); i credenti e i praticanti da confermare nella conoscenza e nell’esperienza della fede; i cristiani anagrafici ma ormai amorfi e marginali rispetto alla proposta cristiana ed alla vita ecclesiale. È questo forse l’anelito più urgente e decisivo del nostro impegno missionario: non tanto evangelizzare i non cristiani, quanto evangelizzare i post-cristiani. Puntualmente la lettera annota: «la conferma della fondamentale scelta per la missione e per  l’evangelizzazione  porta l’Azione Cattolica a misurarsi oggi con l’incredulità, con l’indifferenza, con la ricerca di quanti non si riconoscano esplicitamente o consapevolmente in una prospettiva cristiana, nonché con la diffusa estraneità nei confronti del cammino ecclesiale. È a partire da queste situazioni che occorre elaborare proposte idonee e presentare le ragioni della  fede in modo credibile e condivisibile, prestando attenzione alle domande e alle scelte delle persone che sono attorno a voi» (n. 2).

 

La scelta della missione ci condurrebbe necessariamente a contattare i grandi temi del dialogo con la cultura, del Progetto culturale, della questione antropologica, che abbiamo solo sfiorato parlando della laicità. Per la portata di queste riflessioni, sul testo della lettera non è necessario farlo. Solo possiamo conclusivamente consegnarci alla certezza che la missione prima di essere una questione ecclesiale, pastorale, sociologica è una dimensione teologale e spirituale: è la nostra fedeltà a Dio, il lasciarci normare la vita dal Suo amore in Gesù Cristo, l’assumere in maniera forte e pulita lo «stile» dell’incarnazione che è quello di Dio con noi. Allora poco conta il numero, la maggioranza o la minoranza, molto, anzi, tutto conta la fedeltà.

 

Conclusioni

È breve la conclusione e si colloca, in un certo senso, a valle di quanto abbiamo detto fin qui. Ancora una volta prendo le mosse da un passaggio già citato della lettera: «L’Azione Cattolica continua ad essere una preziosa esperienza di cui la Chiesa, e ogni chiesa particolare, non possono fare a meno» (n. 4). Il Papa ai partecipanti della XI Assemblea Nazionale aveva confermato: «La Chiesa non può fare a meno dell’Azione Cattolica». E questo perché essa sceglie «la diretta collaborazione con la gerarchia per il fine generale apostolico della Chiesa» (Statuto ACI art.1).

 

Se l’Azione Cattolica sceglie la Chiesa, si pone cioè al servizio delle scelte pastorali della chiesa locale, questo significa che essa rinuncia a quelle risorse che caratterizzano gruppi e movimenti: una «idea dominante», il leader, il carisma, etc.. Sua risorsa e suo specifico è la piena dimensione ecclesiale. Ma se l’Azione Cattolica fa la scelta della Chiesa, della Chiesa particolare, è necessario che la Chiesa particolare faccia la scelta dell’Azione Cattolica, altrimenti si avvia un dinamismo che finisce per essere il suicidio dell’Associazione. In questo caso la legge della reciprocità è vitale se non si vuole devitalizzare l’Associazione e, in certa misura, anche la Chiesa.

 

La lettera del  Consiglio Permanente della CEI è perciò un segnale insieme tradizionale e nuovo, è un investimento di fiducia ed un incoraggiamento alla speranza.